The Last of Us Stagione 2: confronto critico tra trama, regia, struttura narrativa e impatto emotivo complessivo
Recensione critica: tra fedeltà, espansioni e un cuore in sospeso
La seconda stagione di The Last of Us, targata HBO, si presenta come un’opera ambiziosa e controversa, che non si limita a riprendere il secondo capitolo del celebre videogioco, ma sceglie di modularlo in modo ponderato per il formato televisivo. È una stagione che non chiude, ma apre. Non consola, ma graffia. E nel farlo, ha diviso anche la critica più blasonata.
Trama: metà storia, massimo impatto?
Gli eventi della seconda stagione coprono circa metà della trama di The Last of Us Part II, interrompendosi prima di arrivare al punto di svolta più significativo del gioco. Questo ha portato molti recensori a giudicare la stagione come un “capitolo intermedio”, più preparatorio che conclusivo. Non c’è un vero e proprio climax narrativo: la storia di Ellie e Abby è appena iniziata, e questo lascia una sensazione di incompiutezza che non tutti hanno digerito.
La scelta più coraggiosa – e fedele al materiale originale – arriva fin da subito: la morte brutale di Joel per mano di Abby, che getta Ellie in un baratro di rabbia e vendetta. Un evento che non viene addolcito o ridimensionato, e che diventa il motore centrale della stagione. Molte testate hanno riconosciuto a questa scena un forte impatto drammatico, ma hanno anche sottolineato che l’assenza prolungata di Joel impoverisce la dinamica emotiva che aveva reso memorabile la prima stagione.
Al contrario, altri hanno visto in questo taglio netto un’opportunità per approfondire Ellie e costruire nuove dinamiche, come quella con Dina, qui interpretata da una sorprendente Isabela Merced. Viene dato molto spazio alla quotidianità nella comunità di Jackson, un respiro narrativo che rende più credibili i legami e aggiunge peso emotivo a ciò che verrà spezzato.
Regia e struttura: lentezza necessaria o disequilibrio narrativo?
Rispetto alla prima stagione, qui il ritmo rallenta. Gli episodi si prendono il tempo per farci entrare nel mondo dei personaggi, indugiano su dettagli relazionali e momenti sospesi. Per molti è una scelta saggia: rallentare permette di costruire tensione e dare spazio alle sfumature. Per altri, però, questa dilatazione rischia di affievolire l’urgenza narrativa. Alcuni episodi sembrano introdurre più che evolvere.
Dal punto di vista tecnico, però, non c’è quasi nulla da ridire. La regia è curatissima, la fotografia alterna tonalità calde a luci taglienti che amplificano l’impatto di ogni scena. Le sequenze d’azione, anche se meno frequenti, sono brutali e credibili. I momenti di intimità, invece, sono gestiti con pudore e intensità.
Mazin e Druckmann scelgono di anticipare la prospettiva di Abby rispetto al gioco, offrendo al pubblico più informazioni fin da subito. Una mossa intelligente, che prepara il terreno per la futura alternanza narrativa. Kaitlyn Dever, nel ruolo, riesce a restituire un personaggio sfaccettato, meno imponente fisicamente rispetto alla sua controparte videoludica, ma ugualmente determinata.

Fedeltà e variazioni: un equilibrio delicato
La serie resta, nel complesso, molto fedele al videogioco, ma introduce delle variazioni intelligenti. Alcune sottotrame secondarie vengono sviluppate con maggiore respiro (come il conflitto tra WLF e Serafiti), mentre alcune sequenze iconiche del gioco vengono rielaborate per la TV con sensibilità cinematografica.
Certo, mancano alcune scene chiave che nel gioco erano memorabili per tensione o significato. Questo ha fatto storcere il naso ad alcuni fan di lunga data. Ma d’altro canto, le aggiunte – come i flashback con Joel, i momenti privati tra Ellie e Dina, o la caratterizzazione più chiara di Abby – offrono un nuovo livello di comprensione e arricchiscono il materiale di partenza.
Emozione e distacco: coinvolgente, ma non per tutti
Il cuore di questa stagione pulsa più nella disperazione che nella speranza. Ellie è consumata dalla rabbia e il tono generale è cupo, violento, spesso disturbante. Alcuni spettatori (e critici) hanno sentito profondamente il dolore trasmesso dalla narrazione. Altri, invece, hanno percepito una certa freddezza, una distanza emotiva che impedisce il coinvolgimento totale.
Non aiuta, forse, la frammentazione emotiva della stagione: si inizia con una perdita, si prosegue con una spirale di vendetta, e ci si ferma prima della catarsi. È una costruzione voluta, ma rischiosa. E per molti, efficace solo in parte.






Conclusione: il peso di un mezzo capolavoro
La seconda stagione di The Last of Us non è perfetta, ma è coraggiosa. Resta fedele al suo DNA videoludico, ma si prende libertà là dove serve. È una stagione fatta di silenzi, rancori, attese e sospensioni. E proprio per questo, spacca la critica: c’è chi la considera un’opera matura e intensa, e chi la vede come una promessa non ancora mantenuta.
In attesa della terza stagione, possiamo dire che The Last of Us ha scelto di non accontentare, ma di inquietare. E forse, in un panorama televisivo saturo di compromessi, è già una vittoria.
Voto: 8/10
Una stagione visivamente splendida e tematicamente potente, che soffre però della sua natura “a metà” e di un ritmo diseguale. Un adattamento rispettoso ma non passivo, che lascia segni profondi – anche se non sempre dove ci si aspetta.
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